venerdì 28 marzo 2014

Fontamara di Ignazio Silone


Ho letto “Fontamara” dopo “L’avventura di un povero cristiano”, ultima opera di Ignazio Silone, che racconta la storia di Celestino V, Pietro del Morrone; pontefice per pochi mesi nel 1294, abdicò in favore di Bonifacio VIII Caetani, che andò ad impinguare di terre e ricchezze le propietà di famiglia, sfruttando e sviando il proprio potere.

Fontamara è un romanzo che racconta degli abitanti di un villaggio di fantasia, della Marsica abruzzese, disposto sul fianco di una montagna grigia e brulla ed abitato dai poveracci di tutte le contrade del mondo. Persone umilissime, che vivono immutabili condizioni di povertà, sacrificio ed ingiustizia; un luogo d’isolamento spaziale, materiale e culturale, in cui si svolge l’intera storia universale dell’uomo, dalla nascita alla morte, e dove le dinamiche determinano unicamente litigi per il cibo e l’acqua.

Isolamento che si traduce in un’incomunicabilità tra i fenomeni cittadini e la vita cafona, perchè realtà sconosciuta all’altra, caratterizzate da valori, interessi, pensieri e comportamenti diversi. L’uso di lingue differenti, le difficoltà a capirsi, la necessità di un traduttore culturale, rende molto bene l’estraneità dei due destini, per cui se contatti avvengono, sono travisati, inconsapevolmente sottovalutati. Esempio è la stampa del giornale, mezzo su cui riversare lamentele e rivendicazioni, anche più cariche del solito, dopo la morte di Berardo, ma sempre lontanissime dal costituire istigazione alla rivoluzione; eppure vista come pericoloso oltraggio alla politica di rigore ideologico portata avanti dal regime, causa giustificatrice dell’uccisione collettiva nella scena finale.

Tipico di rapporti con persone ignoranti è il fatto che il più forte, in quanto dotato di maggiori strumenti culturali o eserciti funzioni pubbliche, il cittadino (che sia l’impresario o il ragazzo antifascista), cerchi di piegare a proprio favore le situazioni, usando il più debole ai propri fini. E’ l’idea per cui il cafone abbia meno dignità e quindi possa essere utilizzato e diventare mezzo per uno scopo non proprio, non importa se giusto o meno. Grave rimane il non rendere consapevole e partecipe, alla pari, di un destino costruito insieme.

Interessante vedere come le prove di forza del fascismo, da poco instauratosi al governo, non vengano comprese, né individuate come novità. Da sempre i fontamaresi sono sfogo di frustrazioni collettive, soggetti a nuovi ed antichi soprusi, da parte di tutti, perchè chiunque è superiore ai cafoni; Silone descrive, nel capito I, la gerarchia sociale:

« In capo a tutti c'è Dio, padrone del cielo.
Questo ognuno lo sa.
Poi viene il principe di
Torlonia, padrone della terra.
Poi vengono le guardie del principe.
Poi vengono i cani delle guardie del principe.
Poi, nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi vengono i cafoni.
E si può dire ch'è finito. »

I Torlonia (famiglia d’origine francese, Torlognes) negli anni ’60 dell’800 s’impadronirono a poco prezzo delle azioni di una società finanziaria che aveva fatto perforare l’emissario per il prosciugamento del Fucino, e che vedeva riconosciuto dal re di Napoli l’usufrutto delle terre per novant’anni; in cambio dell’appoggio politico che i Torlonia offrirono alla debole dinastia piemontese, ricevettero in proprietà perpetua le terre prosciugate e furono insigniti del titolo di principi.

Il prosciugamento del lago di Fucino procurò un notevole abbassamento della temperatura in tutta la Marsica, fino a rovinare le antiche colture; gli uliveti andarono distrutti, i vigneti furono infestati dalle malattie e l’uva non arrivò più a completa maturazione.

Il Capitano del Popolo è sostituito dal Podestà, ma la sostanza non cambia, perchè la condizione dei fontamaresi non può cambiare. Che ci sia Don Magna, proprietario terriero ora decaduto, don Circostanza, avvocato ed ex capitano del popolo, autore di crudeli inganni (come quello dei ¾ e della concessione per 5 lustri dell’acqua del fiume che irriga i campi), o l’Impresaio, podestà fascista, per i Fontamaresi si profila la solita miseria, ricevuta dai padri ed ereditata dai nonni, in cui le ingiustizie più crudeli erano così antiche da aver acquistato la naturalezza della pioggia e del vento.

Il lavoro, di estrema fatica, non era servito a niente, non s’erano mai visti miglioramenti, contadini e piccoli proprietari farsi benestanti, acquistare nuove terre, nulla di simile; possibile era il contrario, contadini che perdevano il proprio appezzamento, oberati dai debiti. Dunque immobilità, anzi pericolo di regressione.

Dal quadro d’insieme si ricava l’immagine di un mondo contadino che, pur con vizi, è assai meno corrotto di quello cittadino, impositore di violenza e del proprio modello sociale. Un mondo in cui i valori della famiglia e dell’amicizia sono sacri, che il pensiero stenta a realizzare possano essere sporcati, finalizzati, come comprenderebbe a fatica una profanazione o un sacrilegio. Berardo va in carcere per difendere un amico, decide di tacere le rivelazioni del ragazzo antifascista procurandosi torture e infine la morte (le autorità maschereranno un suicidio), nonostante realizzi, alla fine, di essere ancora una volta, per l’ultima volta, strumento nella mano altrui; e però decide di proseguire, di andare in fondo, perchè consapevole d’essere dalla parte giusta, sapendo che i cittadini non avevano più alcun ruolo nella sua battaglia ideale.

Scritto da: Antonio

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